27.01 - Che fare in caso di rifiuto di trattamenti sanitari "salva-vita" da parte di un paziente capace di autodeterminarsi?

Va, anzitutto, premesso che l’alimentazione artificiale, al pari dell’idratazione, costituisce, secondo la giurisprudenza di legittimità (Cass. civ., sez. I, 16 ottobre 2007, n. 21748) e secondo l’opinione più accreditata nell’ambito della comunità scientifica (si veda, ad esempio, il documento del 2007 della Società Italiana di Nutrizione Parenterale ed Enterale) un trattamento sanitario, “posto in essere da medici, anche se poi proseguito da non medici e consiste nella somministrazione di preparati come composto chimico implicanti procedure tecnologiche”.   

Ciò detto, i trattamenti di nutrizione artificiale, al pari degli altri trattamenti salva-vita, sono assoggettati alla regola del consenso, prevista in linea generale, dall’art. 32, co. 2 Cost. 

Pertanto, in presenza di una determinazione autentica e genuina dell'interessato nel senso del rifiuto della cura, il medico non può che fermarsi e deve rispettare pienamente la scelta del paziente, ance se da essa possa derivarne la morte. 

In tal senso si è chiaramente espressa la Suprema Corte (Cass. n. 21748/2007) secondo cui “la salute dell’individuo non può essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva. Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato, c’è spazio - nel quadro dell’alleanza terapeutica che tiene uniti il malato ed il medico nella ricerca, insieme, di ciò che è bene rispettando i percorsi culturali di ciascuno - per una strategia della persuasione, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza; e c’è, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico ed attuale. Ma allorché il rifiuto abbia tali connotati non c’è possibilità di disattenderlo in nome di un dovere di curarsi come principio di ordine pubblico”.

Con particolare riferimento alla fattispecie in cui sia il testimone di Geova, maggiorenne e pienamente capace, a negare il consenso alla terapia trasfusionale, si è affermato (Cass. 15 settembre 2008, n. 23676) che il medico è obbligato alla desistenza da qualsiasi atto diagnostico e terapeutico. E ciò perché il conflitto tra due beni - entrambi costituzionalmente tutelati - della salute e della libertà di coscienza non può essere risolto sic et simpliciter a favore del primo, sicché ogni ipotesi di emotrasfusione obbligatoria diverrebbe per ciò solo illegittima perché in violazione delle norme costituzionali sulla libertà di coscienza e della incoercibilità dei trattamenti sanitari individuali.

Al riguardo, la L. 22 dicembre 2017, n. 219 (“Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”), all’art. 1, co. 5, ha previsto che “sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici. Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica”.

La medesima legge, all’art. 1, co. 6, precisa, inoltre, che “il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale”.


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