26.01 - L’amministrazione di sostegno è un sistema di protezione utilizzabile anche in ambito sanitario?

L’amministrazione di sostegno ha adeguato ai principi costituzionali espressi negli artt. 2, 3, e 32 Cost. e, in particolare, a quelli del personalismo e del solidarismo, le disposizioni già dettate dal codice civile in relazione all’infermità mentale abituale, inserendole in un unitario contesto di possibilità di protezione attiva e passiva a favore di ogni persona per qualsiasi causa non autonoma (Trib. Venezia, decr. 4 dicembre 2006).

Con la L. 6/2004 si è voluto introdurre un sistema di protezione più elastico e flessibile, proporzionato alle condizioni del beneficiario e idoneo a rispondere alle diverse richieste derivanti dalla varietà delle situazioni di debolezza e di fragilità.

È ormai esperienza notoria come vi siano casi in cui il soggetto è incapace di provvedere a se stesso senza versare in stato di infermità mentale (come le persone affette da insufficienza mentale, cerebrolesione, autismo, sindrome di Down ecc.) il che quando non si traduceva in una privazione di ogni forma di assistenza, portava forzatamente all’applicazione degli istituti dell’interdizione e dell’inabilitazione, con grave menomazione della residua autonomia del soggetto e con stimmate sociali pesanti ed ingiustificate. È maturata quindi la consapevolezza che, accanto agli istituti tradizionali, fosse necessario introdurre una figura che avesse funzione non tanto sostitutiva ma di sostegno, in grado di intervenire non nella totalità degli atti che la persona assistita è chiamata a compiere (interdizione) e nemmeno in una categoria predefinita (inabilitazione), ma solamente in quegli atti per i quali la situazione concreta suggerisce una presenza vicariante.

Riconoscere che il beneficiario dell’amministrazione di sostegno, pur bisognoso di protezione sotto determinati aspetti, non è per questo un «incapace», contribuisce ad attuare il definitivo superamento della rigida equazione tra infermità di mente e incapacità di agire. 

Il giudice tutelare, a differenza del giudice dell’interdizione e dell’inabilitazione, non agisce nell’ottica di accertare l’incapacità di agire dell’interessato, quanto piuttosto al fine di fornire sostegno a chi si trovi impossibilitato a curare autonomamente i propri interessi. Alla luce di questa considerazione, nell’amministrazione di sostegno la limitazione di capacità si atteggia alla stregua di variabile eventuale, subordinata alla verifica dello stato di incapacità di intendere e di volere del beneficiario e della necessità della incapacitazione al fine di fornire al soggetto la necessaria protezione.

In questi termini l’amministrazione di sostegno offre la possibilità di modulare una protezione mirata, calibrata sulle specifiche esigenze della persona, di cui rispetta la dignità e i bisogni, nella misura in cui l’estensione degli effetti incapacitanti dell’amministrazione di sostegno incontra un limite necessario nel principio di massima conservazione della capacità in capo al beneficiario. L’incidenza dell’istituto sulla capacità del beneficiario, infatti, deve parametrarsi alle specifiche esigenze di sostituzione o di assistenza del soggetto debole, considerato che ogni limitazione trova la propria ragion d’essere nella funzione di tutela e protezione.

Nello stesso senso la giurisprudenza di legittimità si è pronunciata sulla ratio dell’istituto affermando che esso ha la finalità di offrire uno strumento di assistenza che sacrifichi nella minor misura possibile la capacità di agire del soggetto, e che il suo ambito di applicazione, rispetto all'interdizione e all'inabilitazione, va individuato con riguardo non già al minor intenso grado di incapacità del soggetto, bensì alla maggiore idoneità di tale strumento ad adeguarsi alle esigenze concrete del medesimo (Cass. civ., sez. I, 16 giugno 2006, n. 13584).


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